Il malessere che interessa il settore primario è stato presentato, per lo più, come causato da fattori slegati l’uno dall’altro; conseguenza di volta in volta di scelte europee, nazionali o regionali. Per contro molte delle cause alla base della protesta sono la conseguenza di interessi e di una visione del mondo che, senza dirlo chiaramente, si propongono di modificare il ruolo dell’agricoltura europea.
Con il Trattato di Roma, all’agricoltura europea si assegnò il compito di garantire l’autosufficienza alimentare. Successivamente gli incentivi al settore agricolo entrarono in contrasto con la liberalizzazione dei mercati internazionali. Per superare le obiezioni della Wto venne introdotta la nozione di multifunzionalità basata sul principio che coltivare era utile anche all’ambiente e venne ampliato il raggio delle attività connesse.
Gli obiettivi iniziali del Trattato di Roma sono rimasti gli stessi, ma nel frattempo è cambiato il contesto in cui l‘agricoltura è inserita. Da un lato un ambientalismo dogmatico ha individuato nell’attività agricola una delle cause del degrado ambientale, dall’altro molte industrie cercano sbocchi nei Paesi emergenti con esportazioni controbilanciate da importazioni di materie prime anche agricole. Inoltre, si è iniziato a considerare l’importazione di prodotti agricoli in regime di esenzione dei dazi, una modalità per esprimere una vocazione alla solidarietà.
Infine, le nuove tecniche e le scoperte scientifiche, da un lato hanno reso meno importante la disponibilità di terra per la produzione di alimenti (si pensi alle colture idroponiche), dall’altro propongono di passare ad alimenti ottenuti in laboratorio.
Si viene così a creare una coincidenza di interessi tra mondi molto distanti tra loro, che si traduce in una compressione degli spazi per l’attività agricola tradizionale. In pratica, semplificando un po’, si ritiene che importare oggi materie prime agricole e domani passare ad alimenti «artificiali» consenta di mostrarsi solidali, compensare le esportazioni di prodotti industriali, ridurre il costo degli alimenti per i consumatori, liberare terre da destinare alla «Natura», continuare a credere nella scienza come chiave che garantisce rapidamente la soluzione di tutti i problemi.
La realtà è però diversa: le importazioni favoriscono i grandi investitori che sottraggono terre agli agricoltori locali; le industrie sono più mobili dell’attività agricola e spostano facilmente stabilimenti e sedi in Paesi dove le condizioni sono più favorevoli; l’import di prodotti agricoli di base non si traduce in riduzioni dei prezzi al consumo; l’abbandono dell’attività agricola non comporta il ritorno a una «Natura» incontaminata, anzi come dimostra il caso di molte aree montane può aumentare il degrado; infine la scienza quando ha a che fare con sistemi complessi quali quelli socio-economici e ambientali, necessita di tempi molto lunghi per valutare pro e contro di soluzioni apparentemente «miracolose».
Si tratta allora di ripensare al modello di sviluppo nel suo complesso, nella consapevolezza che deve esserci coerenza tra tutti gli strumenti ipotizzati. Se si introducono vincoli ambientali per le produzioni interne, essi dovrebbero essere richiesti anche agli alimenti importati. Nel valutare l’impatto ambientale dell’attività agricola è necessario considerare sia le esternalità negative (da contenere), sia quelle positive (da esaltare).
Il contenimento dei prezzi al consumo va perseguito utilizzando strumenti che impediscano forme di quasi monopolio delle catene commerciali e offrano trasparenza nella formazione dei prezzi. La solidarietà vera richiede che vengano penalizzate le importazioni di prodotti agricoli ottenuti da imprese che praticano l’accaparramento delle terre (land grabbing).
La ricerca deve consentire di sviluppare sistemi effettivamente sostenibili, considerando tutti gli aspetti della sostenibilità medesima. In altre parole è necessario pensare, all’interno di un diverso modello di sviluppo, a un nuovo ruolo per il settore agricolo, senza considerarlo sacrificabile a priori.
Geremia Gios
Università di Trento
L’Opinione pubblicata su L’Informatore Agrario n. 8/2024