La recente pubblicazione dello studio della Commissione Ue sulle nuove tecniche di miglioramento genetico per le colture ha dato il via, come era ampiamente prevedibile, al consueto fuoco di fila di attacchi da parte del variegato fronte che da sempre si oppone a qualunque progresso scientifico in questo campo.
Da qualche giorno fioccano nelle redazioni i comunicati stampa di Slow Food, Wwf, Legambiente e altre meno note, tipo il Coordinamento Zero Ogm (in tutto sono 24), nei quali autodefinendosi «società civile» sparano a zero sulla pur prudente apertura di Bruxelles che intende valutare se non sia il caso di rivedere la normativa attuale, vecchia di 20 anni, che non poteva ovviamente tener conto di innovazioni introdotte più recentemente.
Chi si fosse preso la briga di leggere il documento della Commissione Ue troverebbe delle affermazioni di semplice buon senso: «Lo studio ha individuato limitazioni alla capacità della legislazione di tenere il passo con gli sviluppi scientifici; questi causano difficoltà di attuazione e incertezze legali».
E ancora: «Vi sono forti indicazioni che la legislazione applicabile non è adatta allo scopo per alcune NGT (Nuove tecniche genomiche) e i loro prodotti e che deve essere adattata al progresso scientifico e tecnologico. Potrebbe non essere giustificato applicare diversi livelli di vigilanza regolamentare a prodotti simili con livelli di rischio simili, come nel caso delle piante allevate convenzionalmente e ottenute da determinati NGT».
Ma non c’è niente da fare: chi ha deciso ideologicamente che le novità tecnologiche sono il male non entra nel merito della questione ma le boccia a priori, senza appello.
Incuranti del fatto che l’intero mondo agricolo italiano sia favorevole alla sperimentazione sulle nuove tecnologie di miglioramento genetico e che la ricerca pubblica (non solo le perfide multinazionali) sia già pronta a finalizzare le ricerche in questo campo, accusano la «lobby dell’agricoltura industriale».
Considerando che sui mezzi di informazione (giornali, siti web, televisione, social) lo spazio dato a queste posizioni integraliste rappresenta il 99% di quanto viene offerto al pubblico, bisogna dire che la «lobby del no a tutto» è molto più efficiente.