«La funzione della politica è anticipare i fenomeni economici, sociali e ambientali per programmare, in tempo utile, strategie di sviluppo in grado di preservare e migliorare i livelli di benessere dei cittadini».
Con questa affermazione siamo stati accolti dal ministro dell’Agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida, che abbiamo incontrato a Roma e al quale abbiamo chiesto se la «Politica», quella con la «P» maiuscola sta veramente programmando lo sviluppo del settore agricolo.
«Con il Governo presieduto da Giorgia Meloni − ha replicato Lollobrigida − l’agricoltura è tornata a ricoprire un ruolo di primo piano nell’agenda politica nazionale. Lo attestano le numerose iniziative a sostegno del settore, non ultimo il decreto legge Agricoltura, con il quale interveniamo su vari fronti a sostegno del primario.
Ricordo alcune delle misure varate, come la sospensione dei mutui per le imprese che hanno subito una riduzione del fatturato del 30% nel 2023, la possibilità di coprire gli interessi passivi con le risorse del Fondo sovranità alimentare; i 20 milioni di euro del Fondo filiere destinati al grano duro e poi una serie di indennizzi per i danni causati da moria del kiwi, peronospora e flavescenza dorata. Infine, 20 milioni vanno al contrasto della Psa, anche coinvolgendo le Forze armate e la Protezione civile. Per poter utilizzare Esercito e Protezione civile e accelerare l’azione del commissario, abbiamo dovuto superare una serie di impedimenti burocratici, come è accaduto anche per l’emergenza siccità.
Ecco, tutto questo è stato possibile perché il Governo Meloni si muove compatto verso obiettivi di medio e lungo periodo.
Ministro, per guardare all’agricoltura del futuro non possiamo prescindere dalla ricerca.
Disponiamo di uno strumento potente e molto importante: il CREA. Per anni è stato il motore della ricerca in agricoltura. Dal 2010 tuttavia, dopo la riforma, l’ente è stato trasformato in una somma di Centri e Istituti senza una visione strategica e prospettica. Addirittura, spesse volte, senza la condivisione delle informazioni. Una situazione che dovrà assolutamente cambiare.
Come si risolve la situazione?
Nomineremo un comitato scientifico altamente qualificato, come per il progetto Agritech, dove questo Governo ha voluto il premio Nobel per l’acqua Andrea Rinaldo; puntiamo a personalità dalle eccellenti competenze, non ci interessa occupare poltrone.
Il Comitato dovrà redigere un Piano strategico triennale e uno decennale, stabiliti dialogando con le filiere.
Ci confronteremo pertanto con CREA, associazioni agricole, rappresentanti delle imprese di trasformazione e della distribuzione, per definire obiettivi di ricerca coerenti con le esigenze delle filiere.
Le TEA rappresentano un’opportunità importante per rispondere alle esigenze di produttori e consumatori, ma il decreto che ne consente la sperimentazione in campo perderà efficacia a fine anno.
Troveremo senz’altro le modalità per prorogare gli effetti dell’emendamento che oggi ha consentito la prima semina di riso TEA in Lombardia. Ma la vera partita si gioca a Bruxelles. La resistenza delle Nazioni che si oppongono al via libera all’uso delle TEA, come Polonia, Romania, Croazia, ecc., è dovuta a mio avviso alla paura dei brevetti, non tanto alla convinzione di equiparare le TEA agli ogm.
La mia proposta, per portare almeno una delle grandi Nazioni, ovvero Polonia o Romania, a supportare la norma a favore delle TEA, è di rendere la brevettazione efficace solo al di fuori dei confini UE, perché la vera concorrenza è con i Paesi terzi. In seconda battuta si potrebbe consentire a ciascuno Stato di decidere se utilizzare o meno le piante TEA.
L’altro pilastro a supporto dello sviluppo del settore primario, oltre a ricerca e innovazione, sono gli investimenti, ma il credito in agricoltura langue.
Per affrontare la questione abbiamo proposto un provvedimento tampone cioè la moratoria, ma stiamo perseguendo soluzioni strutturali, ad esempio rifinanziando il fondo di rotazione e stimolando gli investimenti degli istituti di credito. Abbiamo convinto le banche che intendiamo seriamente lavorare per aumentare il valore del made in Italy agroalimentare che, tra l’altro, non è delocalizzabile e vanta opportunità di crescita a livello internazionale come nessuna altra filiera in Italia.
L’accordo con Intesa Sanpaolo porterà l’istituto a dedicare in tre anni 20 miliardi di euro in più all’agricoltura e all’agroindustria. Intesa Sanpaolo ha capito che l’agricoltura è un buon affare nel lungo periodo, perché investire nell’economia reale significa rafforzare il sistema Italia dove ha luogo il 75% del business del gruppo. Altri istituti di credito stanno pensando di seguire le orme di Intesa.
E per quanto riguarda la valorizzazione dei prodotti agricoli?
Il tema va affrontato con una logica di sistema. Non è più sufficiente agire solo attraverso aiuti accoppiati all’unità di prodotto che entra in filiera.
È necessario favorire gli investimenti in impianti privati o cooperativi in grado di valorizzare i prodotti agricoli. Per questo, oltre alle risorse del PNRR passate a 6,53 miliardi di euro, che si sommano ai precedenti 1,2 miliardi del Piano nazionale complementare per i contratti di filiera, abbiamo puntato su Ismea.
L’Istituto oggi può entrare nel capitale di rischio di iniziative private o di cooperative per la realizzazione di progetti il cui obiettivo sia «dar valore all’agricoltura». Sono tanti i casi di successo, ad esempio quello di Inalpi, passata in meno di 20 anni da 15 a 300 milioni di euro di fatturato, realizzato ritirando latte dalle stalle italiane.
Altro fronte sul quale puntare è quello dei Consorzi di tutela. Abbiamo stanziato 25 milioni di euro per rafforzare i Consorzi e stiamo organizzando formazione e aggiornamento dei direttori. Se ben gestiti e ben orientati alla promozione hanno dimostrato di funzionare bene, basti pensare a quanto è successo sul vino e su alcuni formaggi, dove l’export è cresciuto tantissimo.
Altri prodotti caseari, il comparto dell’olio extravergine di oliva e quello degli agrumi non esprimono ancora tutte le loro potenzialità.
Non dobbiamo dimenticare che, se siamo deboli sul fronte della distribuzione organizzata, possiamo contare sia all’interno dei confini nazionali sia all’estero su un canale distributivo enorme: l’Horeca. Per questo vogliamo raggiungere altri accordi che consentano la commercializzazione di prodotti made in Italy attraverso i canali Horeca. Penso alla Burrata di Andria igp, che proprio attraverso la ristorazione ha raggiunto una notorietà planetaria o all’esperienza con McDonalds: oltre 240.000 kg di pomodoro di Pachino venduto.
Antonio Boschetti