Da qualche tempo l’agricoltura è sotto attacco mediatico: dipinta come attività responsabile di consumare risorse, inquinare e compromettere la salubrità del cibo, a causa dei prodotti chimici di sintesi utilizzati per difendere le colture. In particolare, le filiere zootecniche sono sottoposte alle pressioni più forti. Svariate trasmissioni negli anni, anche Rai, hanno denunciato maltrattamenti o presunti maltrattamenti agli animali perpetrati dagli allevatori, fino ad arrivare al documentario Food for Profit della giornalista Giulia Innocenzi.
Il prodotto è concepito e confezionato per far presa sulle paure del pubblico, lasciando credere che comportamenti dolosi di alcuni allevatori siano la norma. Perché Innocenzi non ha raccontato le storie degli allevatori che hanno investito per trasformare le stalle in ambienti più confortevoli per i loro animali? Perché non ha raccontato degli investimenti per centinaia di milioni di euro finalizzati a trasformare in energia e preziosa sostanza organica le deiezioni, a ottimizzare gli stoccaggi e ridurre le emissioni durante la distribuzione dei liquami? Perché non ha citato l’esistenza in Italia e in Europa della più avanzata normativa di tutela del benessere animale del mondo?
La risposta è chiara, basta scorrere l’elenco dei finanziatori del documentario che ha registrato ottimi risultati al botteghino e pare sarà tra i 19 film candidati a rappresentare il nostro Paese agli Academy Awards di Los Angeles, in California, il 2 marzo 2025: Michiel Van Deursen, finanziere di lungo corso, ha acquisito da Unilever la società The Vegetarian Butcher, investe in aziende di tecnologia cellulare (le fabbriche di carne coltivata) e a base vegetale per eliminare gli animali dal sistema produttivo, come afferma lui stesso; Sebastiano Cossia Castiglioni, fondatore di Vegan Capital, un veicolo finanziario concentrato sulla sostituzione e/o eliminazione di tutti i prodotti di origine animale; alcune ong americane animaliste e pro vegani, ecc.
Le diverse filiere zootecniche dovrebbero trovare un punto di caduta comune sul fronte della sostenibilità ambientale, individuando un disciplinare, certificando attraverso un ente terzo il rispetto del disciplinare, scegliendo un marchio unico e infine iniziando tutti insieme a comunicare il tanto di positivo che c’è negli allevamenti italiani a partire dalla salubrità e dalla qualità garantita ai prodotti. L’operazione di lobby di Food for profit, come se fosse una colpa produrre cibo per guadagnare, insegna.