Una bottiglia può racchiudere il meglio di una produzione, ma può pure contenere difetti e alterazioni che vanno a vanificare il duro lavoro in vigna. Il Laboratorio Polo di Oderzo (Treviso) già nel 2001 ha iniziato a porsi il problema delle contaminazioni di zolfo e rame in vigneto, in relazione con il prodotto di cantina.
Anni di analisi e ricerca hanno portato alla redazione di un protocollo, che si basa sul calcolo del fabbisogno della vite, tramite l’analisi di trentasei metalli presenti nel vino, bypassando di fatto le indagini sul terreno. Un approccio innovativo che permette di avere a disposizione, in anticipo sui tempi tabellari, un bilancio consuntivo quando altri sono ancora fermi a quello preventivo (analisi del terreno)!
L’analisi dei metalli nel vino fornisce infatti dati immediati, dettagliati, importanti e risolutivi.
Un procedimento che è valso al Laboratorio opitergino il riconoscimento dell’OIV nel 2008.
Non è azzardato affermare che ciascun vino è in grado di raccontare la vigna di provenienza, narrando la sua storia, passata e recente, trattamenti e incidenti di percorso compresi.
Andando a fondo, mettendo sotto la lente (analitica s’intende!) il vino è allora possibile studiare e monitorare il terreno dove il grappolo è cresciuto e maturato, ma anche valutare nello specifico il grado di tossicità degli elementi che lo compongono.
La dose fa il veleno
«Solo la dose fa in modo che il veleno non faccia effetto». Affermava Paracelso, il medico e alchimista svizzero del Cinquecento, considerato il primo botanico sistematico. Analogamente oggi risulta fondamentale valutare attentamente e con le dovute cautele non solo la presenza ma anche le concentrazioni di rame e zolfo.
È confermata la tossicità del rame nei confronti di alcuni ceppi di lievito, che però, e per converso, favorisce la precipitazione dell’acido solfidrico.
Così per lo zolfo: provoca certamente problemi di riduzione, stimolando la produzione di solfiti (fattore limitante nelle vinificazioni di bianchi senza solfiti aggiunti), e purtuttavia la sua presenza risulta utile per la produzione di alcuni aminoacidi essenziali per il lievito, qualora il mosto ne sia privo.
I lieviti non selezionati (indigeni) e non saccaromiceti (escluso Schizosaccaromices pombe che riesce a sopportare maggiori concentrazioni) normalmente resistono fino a 8 mg/L di rame nel mosto. Andando nel dettaglio: Saccharomyces cerevisiae tradizionali fino a 12, Saccharomyces cerevisiae/bayanus fino a 19 e Sacharomyces cerevisiae non produttori di solfuri fino a 6.
Un alto contenuto di rame, associato alla presenza di fosfiti, folpet, dimetomorph, e a un contenuto nutrizionale non corretto (carenza di vitamine del gruppo B, scarso contenuto di aminoacidi) determina un forte stress metabolico dei lieviti, con conseguente aumento dell’acidità volatile, un pericoloso rallentamento fermentativo e in taluni casi il suo completo arresto.
Tratto dall’articolo pubblicato su Vite&Vino n. 2/2020
Le azioni pratiche per gestire il rame in cantina
di Maurizio Polo
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