Quando si parla di valli trentine si parla di un’eccellenza della produzione agroalimentare made in Italy: la mela. Nella stagione 2018 i melicoltori della Val di Non e della vicina Val di Sole hanno prodotto 440.000 tonnellate di mele e ogni giorno, solo dalla Val di Non, partono 30 tir carichi di mele destinati per il 70% ai mercati italiani e per la parte restante a Paesi europei ed extra europei.
Questo distretto produttivo è unico nel suo genere in Italia, è caratterizzato da aziende di dimensioni medie di pochi ettari con un’elevatissima specializzazione produttiva, come quella di Luigino Dal Piaz, che in Val di non coltiva circa 5 ettari a mele Golden, Renetta, Fuji, Gala, Evelina, Isaaq e Red Delicious.
Per Dal Piaz coltivare mele significa puntare alla qualità ma anche confrontarsi con i problemi, alcuni strutturali come l’andamento del mercato, altri relativamente nuovi come la presenza della cimice asiatica.
Il primo problema è ovviamente legato ai prezzi di mercato delle mele: sebbene alla fine della prima decade di febbraio le mele di montagna (Val di Non, Val Venosta, Valtellina, del Cuneese e altre) hanno spuntato le quotazioni migliori sui mercati italiani, i rischi di «ingolfare» il mercato con eccessi produttivi sono sempre presenti: «per esempio con le produzioni di Renetta, che viene coltivata quasi tutta in Val di Non – racconta Dal Piaz – dobbiamo stare attenti a non eccedere con le produzioni, oltre a mantenere sempre un livello qualitativo che incontri le aspettative dei consumatori».
Sul secondo problema, la cimice asiatica, le preoccupazioni sono elevate: «Vedremo come evolverà la situazione in valle la prossima campagna – aggiunge – perché già in quella scorsa le cimici asiatiche hanno fatto qualche danno».
Nutrizione mirata all’alta qualità
In questo quadro la nutrizione mirata a ottenere mele di qualità migliore possibile gioca un ruolo fondamentale e il piano di Dal Piaz è (relativamente) semplice: «Gli impianti sono dotati di ali gocciolanti, per cui diamo il 50% circa a inizio campagna con i granulari e poi integriamo, in base all’andamento della campagna produttiva, con la fertirrigazione. Per la Golden il piano di concimazione prevede da 50 a 70 kg/ha di azoto, da 20 a 30 di fosforo e da 70 a 90 di potassio, sottoforma di fertilizzanti complessi NPK di elevato valore tecnologico, più magnesio e microelementi vari che distribuiamo in fertirrigazione.
Diamo circa il 50-60% del totale in prefioritura, quindi solitamente attorno alla seconda metà di aprile e poi valutiamo, nei mesi successivi, il carico di frutti per capire come frazionare gli interventi in fertirrigazione. Di solito arriviamo come ultimo intervento con il potassio su Golden entro metà luglio».
Discorso diverso per le piante in crescita, che hanno bisogno di molto più azoto rispetto a quelle in produzione: «In questo caso utilizzo frequentemente fertilizzanti con azoto stabilizzato perché sono molto pratici. Entro nei frutteti due volte, dimezzando di fatto il numero di interventi rispetto all’azoto convenzionale, la prima in prefioritura e la seconda dopo circa 50 giorni. L’azoto stabilizzato ha una cessione più omogenea nel tempo e mi copre in modo efficiente il periodo di richiesta della pianta».
Fertilizzanti: l’efficienza vince sui costi
Semplificando, per ottenere produzioni di qualità è fondamentale disporre di fertilizzanti tecnologicamente avanzati, ma secondo Dal Piaz la questione è più complessa: «Diciamo che alcuni agricoltori percepiscono subito gli aspetti legati alla qualità funzionale di un prodotto, come ad esempio la solubilità o l’efficacia sulle piante, ma a grandi linee e soprattutto se riescono, praticamente, a vederla. Altri agricoltori, invece, capiscono che la qualità più importante di un mezzo tecnico è quella intrinseca, quella legata agli aspetti tecnologici, che però è più difficile da interpretare.
Di conseguenza in alcune aziende si tende a guardare più al prezzo del prodotto che ad altri aspetti, ma personalmente credo che sia fondamentale utilizzare sempre prodotti che diano sicurezza sotto tutti i punti di vista, anche perché nella mia azienda la nutrizione nel complesso incide per un costo pari al 3% della plv, quindi andare al risparmio su un’operazione che pesa molto meno rispetto ad altre, come difesa e manodopera, ha poco senso».
Articolo di L. Andreotti pubblicato su L’Informatore Agrario n. 9/2020