Gli agricoltori europei e italiani sono scesi in piazza per la frustrazione e l’esasperazione dovuti a una strutturale crisi di redditività aggravata da una politica agricola spesso ideologica e lontana dalle esigenze dell’impresa. Nella sua spontaneità la protesta degli agricoltori è apparsa almeno inizialmente un po’ disordinata negli obiettivi e non priva di qualche rischio di strumentalizzazione, ma certamente frutto di un malessere profondo.
Negli ultimi anni, infatti, dall’inizio dell’era del New Green Deal di Frans Timmermans, l’agricoltura si è ritrovata sul banco degli imputati, accusata di inquinare e al contempo di percepire ingenti risorse pubbliche.
Dal regolamento sul ripristino dell’ambiente naturale a quello per imporre la riduzione del 60% circa dell’uso di agrofarmaci, fino alla direttiva sulle emissioni inquinanti, questa Commissione si è mostrata poco amica del mondo agricolo. Eppure in Europa le superfici rinaturalizzate sono aumentate del 10% in trent’anni e in Italia dell’80% in poco più di 70 anni, a scapito dei terreni coltivati. Altro che ripristino della natura, forse bisogna guardare al ripristino dell’agricoltura!
Le emissioni clima-alteranti imputate al settore primario in Italia valgono il 7% del totale nazionale, nel mondo pesano il 35%: un’incidenza inferiore dell’80% che attesta come la nostra agricoltura sia la più sostenibile al mondo.
Tra il 1990 e il 2019 le emissioni di gas serra dell’agricoltura italiana sono diminuite del 17%. Per contro, nel lungo periodo l’andamento della redditività del settore in termini reali è calato, il numero di aziende agricole si è ridotto e il ricambio generazionale resta al palo: solo l’11,9% di titolari d’impresa ha meno di 40 anni.
In agricoltura ad aumentare è solo il carico burocratico: la Pac 2023-2027, nonostante le richieste di semplificazione, ha raggiunto livelli di complicazione mai visti, accompagnati per giunta da un taglio dell’aiuto di base del 50%. Ecco perché, a un certo punto, il malcontento delle campagne è sfociato in protesta, oltrepassando gli organismi di rappresentanza.
E ora? Ora bisogna trasformare le proteste spontanee in visioni di medio-lungo periodo con capacità di dialogo con le istituzioni per ottenere aperture «vere». Il ritiro della proposta di regolamento sull’uso sostenibile degli agrofarmaci annunciato da Ursula von der Leyen non lo è. Il regolamento era già «morto» per il lavoro compiuto in questi mesi da Governi e organizzazioni professionali.
La proposta della deroga al ritiro dalla produzione del 4% della sau, imponendo però troppi vincoli, non lo è. Anzi, gli annunci della presidente della Commissione europea al cospetto della «protesta dei trattori», legati all’imminente rinnovo del Parlamento europeo, rischiano di offuscare il lavoro di organizzazioni e Governi.
A questo punto le organizzazioni devono arrivare a un accordo su una deroga piena, senza vincoli che impediscono di fatto la coltivazione finalizzata al mercato e alle esigenze di bilancio delle imprese. Bisogna iniziare a ragionare nella prospettiva della possibile (anche se improbabile) mid term review della Pac vigente e, soprattutto, gettare le basi di una riflessione a tutto campo su quella che verrà, superando gli estremismi ideologici di una visione «verde» che ha tenuto in ostaggio la Pac, giustificandola solo per finalità ambientali e disconoscendone il ruolo chiave nel garantire produzione e stabilizzazione dei prezzi degli alimenti.
Per far questo bisognerà mettere ordine alle proteste, per costruire piattaforme credibili basate su visioni di ampio respiro. Il pezzo più importante della partita si gioca senza dubbio a Bruxelles, ma anche a Roma ci sono molti «compiti» da fare. Ne voglio ricordare tre: un accesso più facile al credito bancario, una maggiore trasparenza nei mercati e il pasticcio delle assicurazioni agevolate.
Antonio Boschetti
Editoriale pubblicato su L’Informatore Agrario n. 5/2024