Il significato enologico dell’acidità volatile è uno dei temi più convintamente dibattuti dell’enologia attuale. Secondo alcuni critici l’acidità volatile è quasi indispensabile per dare nerbo e personalità ai vini e, qualche volta, attribuiscono premi anche a bottiglie in cui è chiaramente percepibile un lieve spunto acetoso. Altri esperti ritengono che la sensazione di «volatile» comporti sempre un deprezzamento qualitativo dei vini.
Soglie sensoriali
La percezione dell’acidità volatile è probabilmente il parametro sensoriale in cui sono più evidenti le differenze fra soglia di riconoscimento e soglia di percezione, ossia la concentrazione minima alla quale un composto viene percepito ma non riconosciuto.
Nei vini bianchi l’interferenza sensoriale dell’acidità volatile si manifesta a concentrazioni di circa 0,3 g/L, mentre per i vini rossi più strutturati si percepisce per tenori intorno a 0,6 g/L e a circa 0,7 g/L per i vini passiti. La certezza sensoriale che l’acidità volatile sia presente in un vino si rivela a concentrazioni di circa 0,2 g/L superiori alle soglie di percezione.
Variazione delle soglie sensoriali
Il termine di riferimento per un assaggiatore è direttamente derivato dalla sua esperienza di degustazione. Se siamo abituati a valutare vini imbottigliati, raramente saremo capaci di percepire anomalie in un vino bianco che non si discosti dal range usuale di acidità volatile: 0,2-0,45 g/L; circa il 50% in più della soglia percettiva di coloro che sono abituati ad assaggiare vini in affinamento o con il supporto delle analisi chimiche.
Può capitare che assaggiatori con una soglia percettiva dell’acidità volatile elevata giudichino «troppo scolastici» vini con tenori contenuti di acido acetico, atteggiamento da cui deriva la riflessione secondo «un po’ di acidità volatile fa sempre bene».
Rapporti tra composti volatili
A parziale giustificazione dei sostenitori dei pregi dell’acidità volatile è doveroso porre attenzione ai rapporti ponderali fra acido acetico e gli altri composti volatili del vino. L’acido acetico è presente usualmente in concentrazioni intorno a 0,3 g/L, una quantità simile alla somma di tutti gli altri composti volatili, che infatti si misurano in mg/L o, quelli olfattivamente più attivi, in nanogrammi per litro, ossia miliardesimi di grammo.
Si può pertanto intuire che una variazione del tenore in acido acetico non dà solo un contributo specifico, ma influenza l’aroma anche da un punto di vista massivo. Un assaggiatore può essere indotto a pensare che in un vino con acidità volatile sostenuta ci sia una maggiore quantità di aromi o una più ampia complessità.
Alle origini dell’acidità volatile
In termini puramente matematici l’acidità volatile è la somma delle produzioni di tutti i microrganismi presenti in un vino, se attivi, in base alla loro concentrazione. Sgombriamo subito il campo da un’altra falsa convinzione, l’acidità volatile di un vino non è prodotta dai batteri acetici e il destino «naturale» di un’uva non è l’aceto.
I batteri acetici sono infatti strettamente aerobi: non sopravvivono in un mosto che fermenta, in cui si forma rapidamente un ambiente anaerobio, senza ossigeno. I batteri acetici sono semmai responsabili dell’acidità volatile iniziale di un mosto, che è significativa solo in uve affette da marciume acido, uno stadio evolutivo che segue la perforazione fungina o meccanica della buccia degli acini.
Tratto dall’articolo pubblicato su Vite&Vino n. 4/2022
Acidità volatile tra nuovi miti e ricerca
di Mauro De Paola
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