La premessa è nota a tutti. Tre crisi convergenti: prima l’emergenza Covid-19, quindi l’impennata dei prezzi delle materie prime tra cui le commodity alimentari ed energetiche e, infine, la guerra in Ucraina.
Queste tre crisi hanno determinato un vero sconvolgimento del modo con cui «pensare» e «fare» l’agricoltura. Nel breve volgere di alcune settimane, ma i segnali per gli addetti erano già chiari da molto tempo, è cambiato il significato di sicurezza alimentare: da un significato di sicurezza sanitaria e qualitativa (food safety) a uno di sicurezza di approvvigionamento (food security).
In altri termini è subentrato prima il timore e poi la reale constatazione che possono essere insufficienti le derrate agricole per l’ordinario consumo in alcuni comparti del sistema agroalimentare nazionale. Siamo tornati indietro nel tempo, prima dei trattati e della straordinaria crescita dei trasporti e della logistica che avevano apparentemente ridotto le dimensioni del Pianeta.
Dalla sostenibilità ambientale a quella produttiva
Quando uno sconvolgimento è così radicale, non si parla più di una necessaria correzione strategica, ma di un cambiamento di paradigma, cioè del modello di base entro il quale l’agricoltura deve essere declinata, ovvero del modo in cui deve essere impostata la politica agricola e quindi orientata la pratica della agricoltura.
Il nuovo paradigma postula che occorre muoverci da un’agricoltura più sostenibile in termini ambientali a una più sostenibile in termini produttivi. È stata necessaria questa drammatica convergenza di crisi per determinare un cambiamento di percezione importante e la presa di coscienza dei numeri che descrivono l’agricoltura italiana per quello che oggi è: un settore in grave difficoltà, guidato da una politica troppo spesso miope e compiacente nei confronti di un’opinione pubblica formata su una narrazione bucolica staccata dalla realtà.
Se è comprensibile, ma non condivisibile, l’esigenza di impostare una narrazione sull’agricoltura che rassicuri i «cittadini», non è in alcun modo scusabile la scarsa attitudine a un confronto rigoroso basato su informazioni e numeri consolidati sull’agricoltura e le sue prospettive. In altri termini su un approccio ragionato, basato su una valutazione strategica d’insieme.
Le proposte per i problemi italiani
Purtroppo, non possiamo rallegrarci tanto della presa d’atto causata dalle tre crisi citate in precedenza, quanto preoccuparci della velocità e quindi della facilità con cui è stata raccolta l’esigenza di un cambio di paradigma: è bastata una settimana per passare dall’allerta climatico-ambientale all’allerta approvvigionamento.
Sono così nate molte proposte per correggere da subito le politiche agricole e quindi le norme e le misure applicative, analogamente all’apertura di un rubinetto per aumentare il volume d’acqua.
Nel nostro caso aumentare la produzione nazionale di mais, soia, girasole e frumento tenero. È possibile che in queste circostanze la rimozione dei limiti imposti dal greening (Efa e diversificazione colturale) possa aiutare a recuperare qualche migliaio di ettari, in teoria 200.000 ha di cui stimati 80.000-100.000 per le quattro colture in difficoltà di approvvigionamento.
È possibile promuovere un temporaneo aiuto accoppiato per il mais da granella per impiego zootecnico e alimentare e con questo spostare qualche altro migliaio di ettari. Tuttavia, anche applicando tempestivamente questi interventi d’urgenza occorre prendere coscienza che il deficit di autoapprovvigionamento non sarà intaccato in modo apprezzabile.
La coperta è infatti corta: in questo caso la superficie agricola è poca e quella disponibile è in gran parte interessata da un’agricoltura competitiva in sistemi produttivi condotti con attenzione e competenza.
Occorre piuttosto una presa d’atto che, da un lato, i problemi che hanno limitato la crescita delle produzioni nazionali dei seminativi a partire dal 2000 sono specifici, strutturali e non contingenti e, dall’altro lato, che la politica agricola deve essere impostata per mantenere la competitività delle aziende agricole a seminativi.
Tali aziende, infatti, sono soggette a un confronto esasperato con le produzioni cerealicole e oleoproteaginose offerte nei mercati internazionali e con limitati margini di remunerazione dipendenti da specifiche condizioni qualitative e di filiera. Per tale motivo esse devono essere poste nelle condizioni di competere sia sul fronte dei costi, sia sul fronte delle produzioni, senza illudersi che le campagne sul made in Italy o un presunto vantaggio qualitativo possano farci superare i limiti strutturali. In altri termini, l’errore da non ripetere è pensare di trasferire le politiche del settore vitivinicolo o di altre produzioni di nicchia e di eccellenza ai cereali e agli altri seminativi.
Se è vero che dalle crisi nascono le opportunità, allora è sperabile che da questo allarme nasca un attento e ragionato dibattito sui problemi strutturali dell’agricoltura settore per settore, per impostare un piano strategico coordinato sulla base del nuovo paradigma e della presa di coscienza tardiva, ma opportuna, della centralità delle produzioni agricole di base nel sistema agroalimentare nazionale.
Amedeo Reyneri
Università di Torino